E’ là. Dalla direzione del vento il fumo non dell’odore di quello di una stufa spirava sulla città o sui quartieri della periferia arrampicati sul Carso, che di morte e di fumi ne sa qualcosa: le ha raccontate le sue storie nelle parole degli scrittori di qui.
Allieva di un poeta e musicista che durante le lezioni ci suonava il violino, di uno storico diventato maestro di scuola elementare l’ho visitata la prima volta in quinta elementare. Di questi tempi in cui si vogliono tenere i bambini all’oscuro di tutto per poi stupirsi se saranno adolescenti quindi adulti all’oscuro di tutto, che l’abbia veduta insieme ai miei compagni a quell’età, sarà motivo di stupore. Ci andammo con lo scuolabus che ci lasciò sul piazzale e poi imboccammo il tunnel di cemento fino al cortile interno dove si scorge ancora l’impronta di acciaio del forno crematorio con il fumo in ferro, a destra le celle, la sala delle croci con le teche delle cose appartenute ai prigionieri del lager, la cella della morte. Ritornai a casa impressionata ovviamente. Il lungo corridoio che portava alle camere da letto mi pareva quello dell’ingresso al campo, stretto e dalle altissime pareti di cemento armato, come lo vedete nella foto. Mettevano le radio a tutto volume, raccontano i vecchi della case attorno a quello che non si sapeva fosse un lager, accendevano i motori dei camion, abbaiavano sempre i cani. Quando mancava qualcuno nel rione, qualche famiglia, e si veniva a sapere che erano là, era chiaro il destino. Dentro ci sono stati come in tutti gli altri lager: ebrei, slavi, comunisti, partigiani, omosessuali, portatori di handicap, zingari, gente scomoda, ribelli e basta, quelli che fino all’ultimo non appartenendo ad alcuna di queste categorie si erano creduti salvi. Alcuni li tenevano vivi per il tempo necessario ad usarli come manodopera, poi via.
Ci sono tornata da donna adulta proprio nel giorno Giorno della Memoria di qualche anno fa, il giorno del pellegrinaggio ai simboli della vergogna umana. Ho ripercorso il tunnel di cemento armato, un budello di cemento armato. Dovrebbe simboleggiare un argine all’oblio e all’indifferenza. Ho rivisto il cortile, l’impronta del forno, le targhe, i mazzi di fiori secchi che qualcuno posa ancora davanti alle porte delle celle, le corone alla memoria con le fasce delle associazioni dei Caduti, della Regione e del Comune, dell’Anpi, tricolori.
Una donna è passata con un neonato in carrozzina: caspita, non sapevano dove trascorrere la domenica e sono venuti qui.
Sono entrata a destra, dove sono le celle spaventosamente anguste per venti e più prigionieri in un’unica cella. Sui muri sono scritti messaggi politici, addii alle famiglie, imprecazioni di odio, le date in cui sono entrati nel lager. Sono scritti con tutto: con il sangue, con le feci, graffiati, con un moccolo di matita, in slavo, in italiano, in dialetto triestino. Il flash delle macchine digitali, qualche frase di indignazione e cordoglio nella lingua dei messaggi sul muro. Sono andata nel magazzino-museo. Nelle teche gli oggetti delle vittime: occhiali, penne, vecchie foto, orologi, anelli. La guida ci indicava lo spazio vuoto del magazzino: immaginate qui vestiti, valigie, scarpe accatastate, giocattoli che i bambini segnati dalla stella di David sul cappottino avevano in mano al momento dell’arresto, immaginate una giovane donna che dice loro su non piangere, è un gioco, poi torniamo a casa. Se si chiudono gli occhi, li si sente ancora gridare mentre li torturano. Potranno cadere le mura impregnate di dolore. Rimarrà l’eco di cosa è accaduto qui. Ecco cosa è quel qualcosa di terribile che, chi dovesse venire qui fra mille anni quando magari non sarà più così com’è ora alla visita questo luogo, sentirà nell’aria. Se chiudi gli occhi, gli occhi ti piangono delle lacrime loro nel momento in cui hanno capito cosa gli sarebbe successo. Qui si faceva la pilatura del riso prima di quello che si è fatto dopo. Risi le vite fumate dal camino da spargere sulla sicurezza che ordine o sarà rivoluzione e sfacelo… che rivoluzione o morirà la libertà e la pietà. Beate sicurezze trovate nel segno di un partito, nei gradi di una divisa, nelle strade linde; beate e basta così.
Ho immaginato nel mucchio la scarpa di un handicappato che non servono a nulla e fanno ridere, c’era pure il video su Youtube; la gonna colorata di una zingara che sono tutti ladri e infidi, ma non mi ricordavo dove avevo sentito queste espressioni, era stato di recente però e non c’entrava con l’Olocausto. Sono andata nel locale dell’ala sinistra, dove ci sono altre parti del museo. Un sistema proietta continuamente l’attività del comando nazista negli anni di dominazione. La foto di una famiglia ebrea, quelli che fanno le vittime e si inventano tutto. Era un libro, ma non era la storia dell’Olocausto, ed era anche sul giornale tempo fa. E con queste frasi in testa che non sapevo da dove venivano, mi sono fermata davanti alla foto di un partigiano di ventanni, chissà se per caso era quell’amico del mio maestro, partigiano comunista mangia bambini, quello che è tuo è mio, è tutta colpa di un complotto comunista contro di me, ma nessuno mi parlava attorno, dove avevo sentito quelle parole?
Il Male, assoluto, sensato nella sua insensatezza, perché il Male non ha senso anche se ha scopo ossia fare il male ed utilità ossia servire a riconoscere il bene, che ha lacerato la città, il mio Paese, l’Europa, ha squarciato il velo dell’innocenza e ci ricorda ogni 27 gennaio: è vero, può succedere ancora, perché erano uomini e donne come me quelli usciti dal camino, ma lo erano anche quelli di cui guardavo i dettagliati progetti esposti nel museo per un forno che bruciasse più in fretta. In testa, affaccendati a caricarlo di cadaveri, probabilmente avevano l’eco delle parole del Fuhrer, degli ufficiali che gli ordinavano perizia e velocità, battute d’osteria, con un marco non ci compravi neanche un chilo di pane perché i soldi ce li hanno tutti gli ebrei come adesso i romeni ci portano via il lavoro. Cazzate che però a forza di ripeterle al momento giusto e nel contesto fecondo diventano assassina verità.
Sono uscita nel cortile, sono rimasta a guardare l’impronta del forno, mi sono chiesta dov’era Dio quando succedeva tutto questo, quando è successo ancora, mentre sta succedendo: a salvare disperato quello che è riuscito a salvare dalla nostra follia. Si dice follia per dire che non si può immaginare una cosa simile, però è successa, c’è una spiegazione, c’è un prima e un dopo che ha portato a questo. E’ scritto per bene, accademicamente spiegato in tutti i libri che analizzano la storia di quegli anni. Ma allora per cosa abbiamo imparato a leggere e scrivere? Per spiegare altrettanto bene perché no, mai più. Ho pianto di vergogna. Ero nella Risiera di San Sabba, l’unico campo di sterminio sul territorio italiano che a quei tempi si chiamava l'Adriatisches Kunstenland. Dice Saviano in “Gomorra”: la morte fa schifo; alcune morti fanno più schifo di altre, sebbene tutte le morti siano uguali.
Il Civico Museo della Risiera di San Sabba, monumento nazionale nella città di Trieste, a causa della carenza di manutenzione e restauro conservativo rischia di essere chiusa ai visitatori di tutta Italia. E’ bene saperlo e ricordarselo nel Giorno della Memoria.